DI FRK
Umanità Nova
Il prezzo della benzina è aumentato, lo dice anche la televisione, quindi dev’essere vero.
Ancora di più è aumentato il prezzo del diesel, e questo la televisione non lo dice, perché dovrebbe spiegare la discrezionalità delle compagnie petrolifere nel fissare il prezzo dei carburanti ed il fatto che, essendoci ormai più auto diesel che non a benzina, hanno tutto l’interesse a farlo pagare di più della benzina, indipendentemente dai minori costi di produzione.
Il petrolio poi, è quasi arrivato a 100 dollari al barile. Cifra che, per una strana coincidenza del caso e degli interessi dell’amministrazione statunitense, era quella auspicata da Bin Laden in un video diffuso dopo gli attentati dell’undici settembre 2001, quando il petrolio costava meno di 20 dollari al barile.
Già , che strano modo di misurare il petrolio, quello dei barili. Che vengono graficamente ed iconograficamente rappresentati come bidoni, mentre in origine erano barili veri e propri, fatti di doghe di legno. Abbondavano in Pennsylvania dove venivano usati per immagazzinare whisky e, siccome erano a buon prezzo, furono usati dal “colonnello” (titolo assolutamente falso) Drake per stoccare il petrolio che aveva trovato in uno dei primi pozzi statunitensi.
Un barile contiene convenzionalmente 42 galloni (circa 159 litri). Il che significa che, anche a 100 dollari il barile, un litro di petrolio costa circa 42 centesimi di euro, poco più dell’acqua minerale che si compra al supermercato. Incidentalmente rileviamo che l’acqua minerale è imbottigliata nella plastica ricavata dal petrolio stesso (solo per fabbricare le bottiglie di plastica per l’acqua, non biodegradabili, si utilizzano circa 1,5 milioni di barili l’anno). Il petrolio è come il maiale: non si butta niente, anche se sporca un po’ di più! Dal petrolio si ricavano GPL, benzina, cherosene, gasolio, bitume, asfalto ed una miriade di altre cose, tra cui la già citata plastica (che assorbe il 4% del consumo mondiale di petrolio).
Quando si ragiona sugli usi del petrolio viene spontaneo pensare: per forza che costa così tanto, è una risorsa limitata e c’è una domanda crescente. Peccato però che il meccanismo di determinazione del prezzo non funzioni così. Anche perché, visto che nel 1999 costava 10 dollari al barile, vorrebbe dire che si sono esauriti, in otto anni, tutti i giacimenti del mondo.
Il prezzo dell’oro nero (che poi nero non è, visto che è verde o, al massimo, marrone scuro) varia in relazione alla qualità del greggio, determinata da due caratteristiche: il contenuto in zolfo (per il quale si distingue tra dolce ed acido) e la densità (secondo cui si distingue in pesante, medio e leggero).
Un petrolio più leggero e con meno zolfo costa più di un petrolio più pesante ad alto contenuto di zolfo, visto che quest’ultimo ha bisogno di maggiori lavorazioni.
Ogni area geografica produce il suo tipo di petrolio (per alcune aree si tratta di una miscela tra il petrolio di giacimenti vicini con caratteristiche affini): c’è l’Ural russo, l’Arabian arabo, il Maya messicano, il Dubai degli Emirati, e così via. Il prezzo del petrolio però viene fatto nelle borse mondiali e siccome le piazze finanziarie più importanti del pianeta sono Wall Street (a New York) e il London Stock Exchange (a Londra) è lì che ci sono i mercanti che fanno il prezzo del petrolio. Per farlo utilizzano i tipi di petrolio estratti in quei paesi: il WTI (West Texas Intermediate) negli USA e il Brent inglese del Mare del Nord.
Entrambi questi greggi vengono quotati in dollari, che è la moneta di regolazione di tutte le transazioni petrolifere. Per questo motivo si è creata la situazione per cui vengono trattati quotidianamente, sul mercato londinese, quantitativi di “Brent” superiori di 1.000 volte la produzione massima di tutti i pozzi del Mare del Nord. E si è creata la situazione per cui due tipi di petrolio (il Brent e il WTI) che rappresentano meno dell’1% del petrolio estratto nel mondo determinano il prezzo del 99% degli altri greggi.
Se poi si approfondisce il meccanismo di funzionamento del mercato dei “futures”, dove, con scarse disponibilità di moneta, si spostano grandi quantità di merci “di carta”, si capisce che il mercato del petrolio, più che dalla domanda e dall’offerta dipende dalle disponibilità finanziarie e dalle scelte delle corporation e del governo USA (che stampa i dollari con cui viene pagato).
L’utilizzo del dollaro come unità di valore dei barili di petrolio ed il controllo del prezzo al barile attraverso i mercati finanziari sono gli ultimi strumenti rimasti al governo USA per il controllo del mercato petrolifero mondiale. Le famigerate “sette sorelle”, le compagnie petrolifere occidentali che facevano il bello ed il cattivo tempo sui mercati, ormai controllano meno del 6% della produzione di petrolio, che è, invece, saldamente in mano alle compagnie nazionali degli stati produttori.
Questa situazione ha però consentito agli USA di risolvere un loro problema ancora più grande.
Gli USA infatti vivono, dal punto di vista economico, con una spada di Damocle sulla testa. Siccome gli statunitensi hanno delocalizzato molte produzioni hanno un gigantesco deficit commerciale, cioè importano molte più cose di quante ne esportino. Normalmente uno stato in queste condizioni svaluta la propria moneta, facendo così salire il costo dei beni importati e diminuendo il costo delle merci esportate, fino a raggiungere un nuovo equilibrio della bilancia commerciale. Per poter svalutare la moneta il modo più classico è la riduzione dei tassi d’interesse. La diminuzione dei tassi d’interessi USA serve anche al sistema finanziario statunitense a salvarsi dalla bancarotta derivante dalla crisi dei mutui, utilizzati negli scorsi anni per consentire l’acquisto di merci a debito da parte delle famiglie americane che oggi non sanno come restituire i soldi presi in prestito.
Ma gli USA hanno anche un altro problema. Hanno una spesa pubblica, che va a finanziare il complesso militare ed industriale, enorme.
Visto che non hanno possibilità di tagliare la spesa sociale (per la semplice ragione che è ridotta a meno del minimo), l’unico modo che avrebbero per mantenere in equilibrio il bilancio dello stato sarebbe quello di aumentare le tasse, argomento improponibile agli statunitensi che si recano a votare. Il risultato è il più grosso debito statale del mondo. Per finanziare il debito uno stato normale è costretto ad emettere obbligazioni e titoli di stato; e se ne emette tanti è costretto ad offrire tassi d’interesse elevati per attrarre capitali dall’estero.
Insomma l’esatto opposto di quello che dovrebbe fare per ridurre il deficit commerciale.
Visto che gli USA non sono uno stato come gli altri hanno trovato una soluzione per salvare capra e cavoli. Invece di finanziare il deficit statale emettendo titoli di stato, lo finanziano stampando dollari, il resto del mondo è costretto ad acquistare dollari per pagare le forniture di petrolio e, così facendo, assorbe la massa monetaria emessa in eccesso e gli USA non rimangono avvinti dalla spirale inflazionistica che, altrimenti, si sarebbe creata.
Inoltre le forniture di petrolio effettuate direttamente agli USA (consumano il 24% di quello che viene estratto al mondo) sono pagate direttamente in titoli di stato, che i possessori non rivendono, neanche in parte, per timore che un crollo dei loro corsi possa svalutare tutto il loro patrimonio.
Risolto in questo modo il finanziamento del deficit dello stato la Federal Reserve (la banca centrale USA) può tenere bassi i tassi d’interesse e svalutare il dollaro per cercare di riequilibrare la bilancia commerciale.
Questo schema però ha bisogno di prezzi del petrolio sempre crescenti, per cui non può durare in eterno.
Per soddisfare le esigenze di bilancio degli USA e della famiglia Bush (che, di mestiere, fanno i petrolieri) ci vorrà , prima o poi, un’altra guerra, magari contro l’Iran che sta cercando di usare l’Euro al posto del Dollaro per vendere il proprio petrolio, o contro il Venezuela che, disponendo di ingenti capitali grazie all’aumento del prezzo del greggio, sta sostituendo gli USA come prestatore di capitali agli altri stati del Sud America.
FRK
Fonte: http://isole.ecn.org
Link: http://isole.ecn.org/uenne/archivio/archivio2008/un01/art5094.html
Umanità Nova, n.1 del 13 gennaio 2008, anno 88